giovedì 29 maggio 2025

RICHARD NEUTRA: Progettare per sopravvivere, Introduzione di Sarah Robinson


RICHARD NEUTRA:  Progettare per sopravvivere

Introduzione al libro, di Sarah Robinson



Fra noi aumentano sempre coloro i quali sono convinti che si possano trovare e si debbano applicare sistemi di riferimento e unità di misura per giudicare la progettistica in questo senso. Negarlo sarebbe nichilismo bello e buono1. Richard Neutra

La pioggia estrae linfa dalle foglie di creosoto, che rilasciano il loro odore asprigno nell’aria. La pioggia lava con forza la terra, affonda nelle radici radiali del saguaro, ingrossando le ondulazioni a crinoline della sua pelle. La pioggia vivifica il paesaggio: trasforma gli aghi del cactus in peli che si drizzano, antenne sintonizzate per intercettare l’acqua. Le gocce di pioggia tambureggiano sul mio tetto di metallo. Da sotto, veli di tela disegnano la linea che sottilmente divide l’interno dall’esterno. Il muro che si affaccia a sud si inarca contro la mia schiena come il palmo a coppa della mano di un gigante, trasmettendo lungo la mia spina dorsale il calore che ha conservato. Fuori il vento geme. All’interno il fuoco crepita e scoppietta. È durante la tempesta che facciamo esperienza del dimorare in tutta la sua intensità. 
In tal modo, contrapposti all’ostilità, alle forme animali della tempesta e dell’uragano […] la casa acquista le energie fisiche e morali del corpo umano […] è uno strumento per affrontare il cosmo”2 scrisse Gaston Bachelard. 
Bachelard non è stato il primo a paragonare l’energia del corpo a quella di un edificio. Qui il corpo è una metafora nel senso più pieno del termine, ossia il diretto trasferimento di un significato da un dominio a un altro, unendo efficacemente due entità precedentemente separate. In questo caso la capacità latente dell’abitazione di proteggere viene attivata dalla tempesta. La casa passa da uno stato di quiete a uno di attiva risposta. La tempesta carica l’atmosfera, risveglia la casa, trasformandola in uno strumento sensibile: un contenitore animato, dotato di energia fisica e morale. Per riuscire ad apprezzare autenticamente il potere di una dinamica del genere, è necessario farne esperienza in prima persona. 
Essere testimone dei molti umori del deserto del Sonora dal mio rifugio di Taliesin West mi ha offerto questa opportunità: la totale immersione nelle capacità didattiche del corpo, della dimora e del deserto. 
Era esattamente quello che Frank Lloyd Wright aveva in mente quando mandò i suoi apprendisti a vivere in tenda e a costruire rifugi nel deserto. Con l’approccio proprio di un maestro Zen, egli cercò di creare le condizioni in cui poteva scaturire il lampo di conoscenza viscerale e onnisensoriale. Riteneva che una simile esperienza fosse il terreno esistenziale fondamentale per diventare architetti. 
Per essere in grado di progettare un edificio che sia un’entità vivente e non una scatola inerte, è necessario fare prima esperienza di che cosa significhi veramente abitare. 
Wright comprese come questo profondo apprendimento non sarebbe mai potuto avvenire fintantoché lo studente non avesse percepito la propria identità e appartenenza all’interno di una più profonda conoscenza di sé, del costruire e del mondo. 
Un fondamento altrettanto esperienziale costituiva pure l’essenza stessa della filosofia educativa di John Dewey, per il quale l’esperienza del corpo era il terreno primario per qualunque cosa pensiamo, conosciamo, intendiamo o comunichiamo. La filosofia di Dewey non era solo pragmatica, ma anche in modo concreto responsabile e informato sulla più aggiornata fisiologia, psicologia e stato delle neuroscienze del suo tempo. 
Quando Wright fondò la sua scuola, basò la sua pedagogia sui principi cardine di Dewey. Il fondamento della Taliesin Fellowship, quello “dell’imparare facendo”, era il distillato dell’intera filosofia dell’esperienza di Dewey. Nel prospetto originale del 1932, in cui Wright incluse Dewey tra gli “Amici di Taliesin”, agli studenti veniva offerto un apprendistato con un maestro: era la tecnica classica per l’apprendimento delle arti marziali, dell’arte liutaia, della pittura, della scultura, della carpenteria, dell’edilizia: tradizioni di arti e mestieri che erano riconosciute e praticate da secoli in tutto il mondo. In un contesto del genere l’apprendimento non avveniva tanto attraverso lo studio di testi quanto direttamente trasferito dalla conoscenza incarnata del maestro alle capacità ricettive ed esperienziali dello studente. E tuttavia come pedagogia per l’architettura, il modello di apprendistato si poneva in netto contrasto rispetto alla convenzionale formazione architettonica dell’epoca che da tempo aveva abbandonato la conoscenza incarnata per perseguire ricerche puramente intellettuali. 
Wright e Dewey furono tra i pochi pensatori del XX secolo a comprendere la grande ricchezza, complessità e importanza filosofica dell’esperienza incarnata, il cui primato nell’educazione in architettura, infatti, può essere considerato uno dei meno conosciuti tra i contributi di Wright all’architettura moderna. 
Nel corso degli ultimi tre decenni, mentre la teoria architettonica seguiva gli altri studi umanistici nelle aride e vertiginose vette della semiotica, esperti in numerose branche delle scienze si muovevano nella direzione diametralmente opposta. Invece di rimanere impaniati in intricati giochi cerebrali, che negavano del tutto la realtà emozionale e corporale, i ricercatori accumulavano prove sul fondamento corporeo della mente e su ciò che esso significava. 
Discipline diverse come la biologia, la psicologia, le neuroscienze cognitive e la fenomenologia presentavano regolarmente delle prove capaci di dimostrare fino a che punto le proprietà della mente dipendessero dal funzionamento del sistema nervoso umano. Esse concordavano all’unanimità su questo fatto: tutti i comportamenti umani dipendono dai nostri cervelli come membra organiche dei nostri corpi, che sono a loro volta attivamente coinvolti negli ambienti ecologici, architettonici, sociali e culturali in cui abitiamo. 
L’incarnazione reclama a gran voce una riconcettualizzazione su vasta scala di chi e di che cosa siamo, in modi che sono significativamente diversi dalla nostra tradizione filosofica e religiosa occidentale. Accettare che le nostre menti possano comprendere aspetti del nostro ambiente fisico e culturale sta a significare che il tipo di ambienti che creiamo può modificare le nostre menti e la nostra capacità di pensiero, emozione e comportamento. 
Un’asserzione del genere indebolisce la sicurezza delle nostre categorie ontologiche. Infatti, le dicotomie che separano l’interno dall’esterno e il soggetto dall’oggetto non sono distinzioni di categoria quanto astrazioni che sorgono dalla nostra continua interazione nel mondo. Il concetto di un sé separato che opera in isolamento rispetto al suo ambiente è perciò rigettato tra i resti di un paradigma logoro.
Possiamo rintracciare il pensiero non dualistico di Dewey attraverso le recenti scienze cognitive nell’opera di Francisco Varela e Humberto Maturana, Alva Noë e George Lakoff, nelle neuroscienze, soprattutto nell’opera di Gerald Edelman, Vittorio Gallese e Giacomo Rizzolatti, attraverso le investigazioni fenomenologiche di Mark Johnson; tutti loro sostengono che la realtà dell’incarnazione impone una radicale rivalutazione dei dogmi a lungo coltivati che separano il materiale dall’intellettuale, la mente dal corpo e il sé dall’ambiente. Mentre le implicazioni dell'affermazione provocatoria di cui sopra non hanno ancora fatto breccia nella coscienza pubblica, altrove interi programmi di ricerca sono stati demoliti e riorientati, riorientati, ed emergono nuove discipline capaci di confrontarsi con questa realtà recentemente assodata. 
Come Harry Mallgrave dichiara in questo libro: non è esagerato dire che abbiamo imparato di più su noi stessi come esseri biologici nell’ultimo mezzo secolo che in tutta la storia umana precedente; e come risultato di questi sviluppi, gli studi umanistici – sociologia, filosofia, psicologia e paleontologia umana in particolare – sono stati costretti a rivedere i loro presupposti teorici e i loro programmi di ricerca in modo radicale. 
Eppure gli architetti sono rimasti sorprendentemente indifferenti o sembrano essere poco influenzati da tali eventi. Al pari di molte altre professioni, la pratica dell’architettura è in crisi, e nonostante al giorno d’oggi trascorriamo il novanta per cento del nostro tempo all’interno di edifici, gli architetti ne progettano una piccolissima parte. 
Nel frattempo, le scienze cognitive e le neuroscienze, e la teoria dell’incarnazione su cui si basano, stanno rivoluzionando la conoscenza tra le discipline. In effetti, alcuni osservatori hanno suggerito che ci troviamo nel mezzo di una rivoluzione nelle neuroscienze che è importante tanto quanto quella galileiana lo è stata nella fisica e quella darwiniana nella biologia. 
Un gruppo unanime di esperti provenienti dalle discipline più disparate sostiene il ruolo essenziale che l’ambiente – edificato o naturale – gioca nel determinare la nostra evoluzione mentale, fisica, culturale e sociale. 
In quanto architetti, non siamo solo consapevoli di tale premessa, molti di noi ci hanno scommesso le proprie carriere. Mentre possiamo non essere convinti del ruolo decisivo che l’ambiente edificato gioca nell’orientare il comportamento umano e l’evoluzione, i nostri clienti, i nostri eredi e il nostro pubblico certamente lo sono.
Comprendere il ruolo dell’architettura nel dare forma a chi siamo e a chi possiamo diventare significa aumentare l’importanza del nostro lavoro, innalzare la statura del nostro ruolo e mettere in luce la misura del nostro contributo al benessere umano ed ecologico. Ignorare il potenziale impatto della ricerca neuroscientifica sull’educazione e sulla pratica architettonica significa mancare una straordinaria opportunità, proprio perché siamo quel gruppo di professionisti a cui questa nuova conoscenza può più persuasivamente servire. 
Dal momento che l’architettura costituisce un ponte tra la scienza e l’arte, da sempre noi architetti abbiamo applicato nella nostra pratica principi scoperti dalla ricerca scientifica. 
Uno dei primi sostenitori dell’impiego delle neuroscienze come fonte di informazioni per l’architettura è stato Richard Neutra; poiché lavorò con Wright quando la Fellowship stava prendendo forma, è solo una leggera forzatura considerarlo un apprendista di prima generazione di Taliesin. Egli scrisse Progettare per sopravvivere negli anni della seconda guerra mondiale. Se il titolo può sembrare estremo, ossia che il concetto che la sopravvivenza umana possa in qualche modo essere garantita dalla progettazione, le promesse del modernismo erano tuttavia esattamente quelle. 
L’architettura modernista aveva il potenziale di liberarci dalle catene di un pensiero angusto nato in ambienti cupi: avrebbe migliorato la nostra efficienza, allargato i nostri orizzonti fisici e mentali, e garantito un futuro più luminoso. 
Neutra promosse questi nobili scopi, ed era convinto che la progettazione dovesse fondarsi sulla comprensione biologica della natura umana. Scrisse: la nostra epoca è caratterizzata da una sistematica ascesa delle scienze biologiche e sta voltando le spalle alle ipersemplificate vedute meccanicistiche dei secoli XVIII e XIX, senza sminuire in alcun modo il bene temporaneo che tali vedute poterono a suo tempo arrecare. 
Un  risultato importante di questo nuovo modo di considerare la vita potrà essere quello di mettere a nudo ed evolvere appropriati principi operativi e criteri di progettistica3. 
Progettare per sopravvivere è il frutto di una vita di esperienza nella progettazione, integrata dalle ricerche di psicologia e fisiologia che l’architetto austriaco andava compiendo. 
Il fatto che il libro sia stato dedicato a Wright può essere considerato come la prova della lealtà di Neutra in merito all’origine del pensiero incarnato e delle investigazioni empiriche a cui Taliesin diede origine. 
Neutra proseguì la tradizione a cui lo stesso Wright apparteneva, quella che concepiva l’integrità della persona nel contesto di una più vasta ecologia comprensiva dei regni biologici, sociali, culturali e linguistici, e quella che era guidata dai principi dedotti attraverso “l’osservazione concreta anziché dalla speculazione astratta”4. 
L’empirismo incarnato è in armonia con le conoscenze avanzate nel meglio delle scienze cognitive, delle neuroscienze e della fenomenologia del panorama contemporaneo. Anche se la rivalutazione della nostra incarnazione potrebbe disvelare nuove frontiere in altre discipline, le più antiche manifestazioni dell’architettura sono sempre state radicate nell’esperienza corporea. 
Vitruvio raccolse un migliaio di anni di cultura classica nella sua formulazione dell’“uomo ben fatto”, un’eredità portata avanti da Leon Battista Alberti, il quale riteneva che l’edificio ideale dovesse emulare il corpo umano. La celebrazione del corpo umano è stata presente fino al Rinascimento, solo più tardi l’uomo fu espunto dall’equazione architettonica. A parte qualche eccezione degna di nota – come l’esempio che ho cercato di descrivere per Taliesin –, l’esperienza corporea umana è stata effettivamente espunta dall’educazione e dalla pratica architettonica proprio fino al giorno d’oggi. 
Motivo per cui, se le scoperte delle neuroscienze e dell’empirismo incarnato nelle quali l’educazione e la pratica architettonica affondano le proprie radici possono non costituire una novità nel panorama della storia dell’architettura, esse possono tuttavia servire come catalizzatore per recuperare l’umanità smarrita lungo il cammino. 
Come Neutra aveva predetto, le scienze biologiche in generale e le neuroscienze in particolare sono finalmente pronte a fornire alcuni principi e criteri basilari con cui poter lavorare nella progettazione. I capitoli del libro considerano da un punto di vista critico quali potrebbero essere alcuni di questi principi e criteri, molti dei quali sono emersi durante il simposio “Minding Design: Neuroscience, Design Education and the Imagination”, una collaborazione tra la Frank Lloyd Wright School of Architecture e l’Academy of Neuroscience for Architecture che ha portato i più influenti architetti e neuroscienziati attorno allo stesso tavolo: un tavolo collocato nel campus di Taliesin West.   
Come ogni abile anfitrione sa, il successo di una festa spesso dipende dall’atmosfera del contesto. L’ambiente non offre solo riparo al tavolo, ma influenza lo svolgimento, il contenuto e l’umore delle conversazioni che hanno luogo tutt’attorno. Il capolavoro isolato di Wright ne è un esempio. 
Le discipline delle neuroscienze e dell’architettura si intersecano l’una con l’altra nella comprensione e nei doveri verso il loro soggetto, l’essere umano incarnato, un essere che può esistere solo nella relazione: relazione con i luoghi che abitiamo, relazione dell’uno verso l’altro, relazione con il mondo. Gli ambienti architettonici hanno la capacità di favorire, indebolire o distruggere tali relazioni. 
Sia i neuroscienziati coinvolti nella Academy of Neuroscience for Architecture che lavorano al Salk Institute di Louis Kahn sia gli studenti di Taliesin sono consapevoli di una interdipendenza del genere. Il fine settimana nel deserto è stato un punto di partenza, uno stimolo che ha aperto uno spiraglio su qualche nuova finestra e ne ha spalancate altre così ampie da sbattere contro lo spigolo del muro. Quell’occasione ci ha dato lo slancio da cui derivano i contributi per il presente lavoro. 
In questo contesto, professionisti di discipline come la psichiatria, le neuroscienze, la fisiologia, la filosofia, le scienze cognitive, la storia e la pratica dell’architettura si incontrano non solo per esplorare quello che le neuroscienze e l’architettura possono imparare l’una dall’altra: essi collocano il dialogo in un contesto storico, esaminano le implicazioni nella pratica corrente e nella reimmaginata educazione architettonica, sognano la forma del futuro. 
Da questa esperienza emergono i criteri di progettazione forgiati nel corso di eoni di evoluzione sul pianeta, i cui imperativi non sono né arbitrari né negoziabili. L’attenzione non è ristretta ad algoritmi, significanti e particelle, ma orientata verso i fattori emergenti, affettivi, sensuali, gestuali e cinestetici che modellano la percezione e l’esperienza umana. 
Nel libro troverete una sempre più complessa e raffinata comprensione dell’impulso, degli aneliti, dei desideri e delle discussioni che costellano l’inequivocabile agire degli edifici che creiamo. Preoccupazioni di antica data emergono sotto nuove spoglie, vecchie dicotomie vengono riorientate, le priorità ridefinite, teorie un tempo in voga cominciano a vacillare, vecchie alleanze vengono messe in discussione e nuove vie intraprese. 
Nei capitoli del libro non troverete né dogmi né certezze ideologiche pronte a riempire il vuoto lasciato dalle teorie un tempo amate e che ora siamo costretti ad abbandonare. Al contrario, si tratta di un inizio, di un punto di partenza all’interno di un processo più ampio. 
Confrontarci autenticamente con le implicazioni dell’incarnazione e accogliere con serietà le scoperte provenienti dalle nuove scienze della mente è un’impresa di vasta portata, intrinsecamente multidisciplinare e necessariamente collaborativa. Un’impresa che richiede una “coevoluzione di teorie”5, come ha suggerito la filosofa Patricia Churchland. 
L’evoluzione è un processo che procede per crisi e ripartenze, innescato da una pluralità di condizioni, impulsi, comandi: lavora dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso. 
Sostenere che “i neuroscienziati saranno i prossimi grandi architetti”6 tradisce un malinteso sui ruoli e sulla natura intrinsecamente interdipendente delle due professioni. Nonostante la popolare mitizzazione del contrario, gli architetti sono e sono sempre stati giocatori di squadra. Siamo più simili ai registi, dipendenti dalla chimica interattiva tra i luoghi, gli attori, la storia e il budget, piuttosto che dittatori solitari con visioni trascendentali. Con raffinata sensibilità, esperienza e conoscenza condivisa, siamo in grado di modellare un tutt’uno da una moltitudine di variabili differenti. Un edificio più modesto potrebbe essere un insieme di parti. 
Il nostro lavoro migliore emerge da una sintesi che trascende ognuna delle sue variabili per diventare completo, un’unica entità, un nuovo mondo. Per riuscirci, dobbiamo essere dei generalisti che ascoltano e dipendono dalle competenze dei nostri collaboratori. 
È importante quello che facciamo. La nostra responsabilità è eticamente fondata nel nostro passato di esseri umani, e solo onorando le nostre origini biostoriche possiamo sperare di progettare un futuro sostenibile. “Oggi la progettistica può esercitare un vasto influsso sull’assetto nervoso di generazioni a venire”7 scrisse Neutra sessant’anni fa. 
Davvero, l’architettura non è un’opzione, non è un oggetto di lusso, è, ed è sempre stata, il vero tessuto della nostra sopravvivenza, della nostra potenziale fioritura o della nostra possibile estinzione.




Note:
¹ Richard Neutra, Progettare per sopravvivere, Edizioni di Comunità, Milano, 1956, p. IX. 
2 Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, Bari, 2006, p. 73.
3 Neutra, cit., p. 17. 
4 Ibid., p. 7.14 
5 Patricia Churchland, Neurophilosophy: Toward a Unified Philosophy of Mind and Brain, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 1986. 
6 Emily Badger, “Corridors of the Mind”, in «Pacific Standard», 5 novembre 2012. 
7 Neutra, cit., p. 75.
 

Fonte:
FUP Best Practice in Scholarly Publishing (DOI 10.36253/fup_best_practice)
Sarah Robinson, Introduzione: progettare per sopravvivere, pp. 9-15, © 2021 Author(s), CC BY-NC-SA 4.0 International, DOI 10.36253/978-88-5518-286-7.0210 (la mente nell'architettura • sarah robinson, juhani pallasmaa) 



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